La legge sull’equo compenso è (finalmente) Legge, ed è in vigore dal 20 maggio 2023.
Ha lo scopo di tutelare il diritto del professionista di percepire un compenso giusto e conforme ai parametri ministeriali, in particolar modo nel caso di prestazioni offerte a favore di imprese di grandi dimensioni e della Pubblica amministrazione. Soggetti verso i quali il professionista rischia di presentarsi come la “parte debole” del rapporto.
Da una parte dunque i professionisti, che saranno obbligati a richiedere compensi proporzionati alle prestazioni rese e in linea con i parametri professionali. Dall’altro gli Ordini di appartenenza, i quali saranno tenuti a verificare, sul campo, il rispetto della Legge da parte degli iscritti.
Chiariamo subito un punto: la legge è importante, rappresenta sicuramente una svolta, attesa da anni. La tutela del decoro e della dignità delle professioni presuppone una retribuzione adeguata la quale (ma non solo) si erge a garanzia della qualità della prestazione resa.
Tuttavia, la Legge rappresenta un punto di partenza, non di arrivo. Trovando applicazione solo per le convenzioni nuove (e non per quelle che sono in corso, alle quali la nuova normativa non si applica), il rischio è che, di fatto, vengano elusi gli obbiettivi voluti dal legislatore mediante una pratica che porti al rinnovo, automatico e sine die, delle convenzioni in corso e alla mancata stipula di nuove.
Vedremo quindi se la montagna avrà partorito il topolino. Oppure se le associazioni forensi e gli organi di rappresentanza della avvocatura sapranno incidere per una estensione della Legge alle convezioni già in essere nell’interesse degli iscritti, a tutela della dignità della professione e a garanzia della collettività (o almeno di quella larga parte di essa che chiede risposte alla giustizia).
Cos’è l’equo compenso
Ma quando il compenso è equo? Quando è proporzionato alla quantità, alle caratteristiche e alla qualità della prestazione professionale resa. Ciò può avvenire – chiarisce il legislatore – solo se esso è conforme ai parametri professionali stabiliti:
- dal decreto del Ministro della giustizia, art.13, comma 6, della legge 31.12.2012, n. 247, per quanto riguarda gli avvocati;
- dai decreti ministeriali art. 9 del d.l. 24.1.2012, n.1 convertito dalla legge 24.3.2012 n.27, per quanto riguarda i professionisti iscritti a ordini e collegi;
- dal decreto del Ministro dello sviluppo economico, per i professionisti di cui al comma 2 dell’art.1 della legge 14.1.2013, n.4.
La nuova normativa si applica obbligatoriamente alle prestazioni professionali fornite da avvocati, anche in forma associata o societaria, in favore di banche, assicurazioni, imprese che nell’anno antecedente a quello di conferimento dell’incarico professionale hanno occupato oltre 50 lavoratori o generato ricavi superiori a euro 10 milioni, nonché alla Pubblica Amministrazione e alle società a partecipazione pubblica.
Non si applica, invece, alle prestazioni rese in favore degli agenti della riscossione e delle società veicolo di cartolarizzazione, di quei soggetti giuridici che hanno parametri economici e occupazionali inferiori a quelli sopra indicati e ai clienti c.d. privati. Rispetto ai quali – si assume – che il professionista abbia un potere contrattuale maggiore.
Applicazione dell’equo compenso alle convenzioni esistenti
La ragioni della scelta legislativa sono intuibili. Superare quelle storture della libera concorrenza che, da quando sono stati aboliti i minimi tariffari obbligatori (2006), ha visto parte dei professionisti (in particolare, i giovani e quelli che non possono contare su una clientela solida, ma non solamente) accettare l’affidamento di incarichi in massa a prezzi irrisori (di gran lunga al di sotto dei parametri professionali).
Come anticipato, però, l’articolo 11 della Legge del 21 aprile 2023, n. 49 ne limita l’applicazione alle convenzioni nuove (quelle successive alla sua entrata in vigore).
Il che rischia di vanificare gli effetti positivi voluti dal legislatore. Il pericolo è che i clienti “forti” evitino di stipulare nuovi accordi e si limitino, invece, ad affidare nuovi incarichi sulla base delle convenzioni vigenti (ancorché scadute).
Solo l’applicazione retroattiva della norma ai nuovi incarichi, ancorché conferiti nell’ambito delle convenzioni già stipulate, permetterebbe di superare questa lacuna evidente e salvaguardare il principio fondante della norma.
Per cui esclusi dalla normativa dovrebbero essere solamente quei rapporti lavorativi in corso di svolgimento.
Le clausole nulle
Saranno considerate nulle le clausole che stabiliranno compensi inferiori ai minimi stabiliti dai parametri ministeriali previsti per la liquidazione giudiziale dei compensi in favore degli iscritti agli ordini o collegi professionali.
Nello specifico:
- quelle che imporranno al professionista l’anticipazione delle spese;
- quelle che proibiranno al professionista di richiedere acconti;
- le disposizioni che concederanno al cliente la facoltà di modificare in modo unilaterale i termini dell’accordo;
- quelle che permetteranno al cliente di esigere dal professionista prestazioni aggiuntive senza nessun costo ulteriore;
- quelle che conterranno termini di pagamento superiori a sessanta giorni dal ricevimento della fattura;
- nell’eventualità di liquidazione delle spese di lite a beneficio del cliente da parte del giudice, quelle che prevederanno, in favore dell’avvocato, il solo riconoscimento del minore importo indicato nella convenzione, anche nel caso in cui le spese liquidate siano, in tutto o in parte, pagate dalla controparte o recuperate in via esecutiva; ovvero quelle che riserveranno al legale il solo importo liquidato (se minore) rispetto a quello indicato nella convenzione (se maggiore);
- nel caso di consulenza contrattuale, quelle che prevederanno che il corrispettivo spetti solamente se il contratto verrà stipulato.
La nullità è in favore del solo professionista. Non potrà essere fatta valere dall’altra parte. Potrà, invece, essere rilevata dal giudice.
L’azione giudiziale
Naturalmente (e non poteva essere diversamente) il professionista ha accesso alla tutale giudiziaria.
L’azione è promuovibile davanti al Tribunale del luogo di residenza o domicilio del professionista.
Il giudice, riscontrata la natura iniqua del compenso, lo rideterminerà secondo i parametri stabiliti dai decreti ministeriali.
A tal fine, il Tribunale potrà richiedere al professionista di acquisire dall’ordine o collegio presso cui lo stesso è iscritto, un parere sulla congruità del compenso. Costituiscono elementi di prova:
- la peculiarità, l’urgenza e il pregio dell’attività;
- l’importanza, la difficoltà, la natura e il valore dell’affare;
- le condizioni soggettive del cliente;
- i risultati raggiunti;
- il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate.
Ove indispensabile, il giudice potrà avvalersi anche di una consulenza tecnica.
Indennizzo a favore del professionista
In caso di rideterminazione del compenso il cliente potrà essere condannato:
- al pagamento di una differenza tra l’importo dovuto (c.d. equo) e quello versato; e
- a un indennizzo pari fino al doppio della differenza accertata, salvo il risarcimento del maggior danno (che dovrà essere provato).
Onere probatorio-presunzioni e prescrizione
La Legge semplifica l’onere probatorio a carico del professionista: gli accordi preparatori o definitivi, vincolanti per il professionista, si presumono unilateralmente predisposti dalle imprese. Salvo l’ammissibilità di prova contraria.
In sede di conferimento di incarico potranno essere adottati modelli di convenzioni preventivamente definiti dal Consiglio nazionale degli ordini o collegi professionali (c.d. standard). In tal caso, i compensi pattuiti si presumono equi, fino a prova contraria.
L’azione per far vale l’iniquità del compenso è esercitabile dal momento di cessazione del rapporto professionale per qualsiasi causa. In caso di pluralità di prestazioni rese con un unico incarico, il termine di prescrizione decorre dal giorno del completamento dell’ultima prestazione. Si esclude il caso di prestazioni aventi carattere periodico.
Class action a tutela dei professionisti
È consentito anche il ricorso all’azione di classe di cui al titolo VIII-bis, quarto libro del Codice di procedura civile.
Fermo il diritto all’azione da parte di ciascun professionista, l’azione potrà essere introdotta dal Consiglio nazionale dell’ordine a cui il professionista è iscritto o dalle associazioni maggiormente rappresentative.
La questione delle sanzioni da parte degli ordini professionali
Se lo scopo della Legge è quello di tutelare la dignità professionale, allora ben si comprende come l’intento del legislatore sia anche quello di impedire pratiche di concorrenza sleale tra colleghi tramite il ricorso a una pratica (scorretta) di ribasso dei compensi.
Agli Ordini professionali e ai Collegi di appartenenza è affidato il delicato incarico di stilare norme di deontologia professionale che prevedano sanzioni per l’iscritto che violo i precetti sull’equo compenso.
Trattamento non equo: chi è la vittima?
È il professionista la vittima – viene dunque da chiedersi – che, privo di una solida clientela su cui poter fare affidamento, si trovi nella condizione di non poter fare a meno di accettare un compenso misero da parte del suo interlocutore forte?
Oppure, è il professionista a dover finire sul banco degli imputati perché responsabile di un comportamento contrario alla disciplina deontologica, perché ad esempio il ribasso è stato effettuato al solo fine dell’accaparramento della clientela?
Personalmente ritengo che sia vera l’una e l’altra ipotesi. La Legge dovrebbe essere, finalmente, di stimolo per dare impulso alla individuazione di strumenti che possano mettere gli Ordini professionali e i Collegi di appartenenza nelle migliori condizioni per accertare fenomeni di stortura del mercato e sanzionarli, ove presenti e (realmente) voluti.